by Ilaria Verunelli
(Image credits: @Mauro Balletti)
Nicola Gardini is a professor of Italian and Comparative Literature at the University of Oxford and Fellow of Keble College. As a distinguished Latinist, he is a teacher, writer, and painter. Immediately after graduating with a focus in classical studies, he moved to the United States and became a visiting professor at New York University (NYU) in Florence and at Columbia University in New York.
“Italy has this beauty: it is a multilingual country, where Italian as a norm, has slowly spread. Up to advent of radio and television, it is not yet possible to speak of a common Italian. In my opinion, this is a feature of the great Italian irony: the awareness that there is always another language.”
Here you find my interview.
October 28 2021
Reading time: 10 min
Le parole che ama particolarmente sono ombra, lacuna, confine, libro, tempo, fonte. Sono voci della complessità, dell’ambiguità, delle potenzialità. Dell’arte, verrebbe da dire. «È il mio vocabolario concettuale, quello che mi accompagna ogni giorno e che mi fa continuamente riformulare la mia posizione nel mondo. L’ombra cambia, il confine non si sa mai dov’è. La lacuna può essere minacciosa, avara, ci toglie. Però è anche un modo di indurci a ricostruire, a pensare». Nicola Gardini è Professore di Letteratura Italiana e Comparata presso l’Università di Oxford e Fellow di Keble College. Insigne latinista, insegna, scrive e dipinge. Subito dopo la laurea in Lettere Classiche, approda negli Stati Uniti e diventa Visiting Professor alla NYU, Florence, e alla Columbia University, New York.
«Fui ammesso alla NYU e tutto avevo voglia di fare tranne che continuare gli studi classici, perché ormai erano anni che mi ci dedicavo. Intendevo diventare anglista, americanista o addirittura romanziere in lingua inglese. Però, la cosa più interessante che avevo, arrivato lì, erano proprio il latino e il greco. All’inizio, provai un po’ di delusione, perché la sognata metamorfosi in americano sembrava impossibile. Poi hanno prevalso una certa fierezza e il senso di compimento di un percorso che non era più solo un’ottima istruzione classica, ma anche un curriculum internazionalmente riconosciuto e assolutamente prezioso. Finii per prendere il dottorato con una tesi sull’imitazione della poesia antica nella lirica europea del Cinquecento».
Quando si parla dell’Italia spesso si pensa al Rinascimento, epoca a cui lei ha dedicato molti dei suoi studi.
Sì, il mio interesse per il classico, per l’antichità, ha avuto un quasi inevitabile sbocco nello studio delle opere rinascimentali. Il Rinascimento è proprio il momento in cui il dialogo con l’antico si formalizza. L’antichità viene ricreata attraverso la traduzione, un’estesa pratica del latino e dell’imitazione letteraria. L’antichità non ci arriva bella e formata, ma è una galassia ebolliente, confusa, della quale ignoriamo ancora molti angoli. Il Rinascimento ha avuto la capacità di cominciare a riconoscerla e a ridisegnarla, non soltanto avendo una nuova coscienza storica della distanza tra presente e passato, ma anche portando alla luce testi che non erano letti da secoli. Si riscoprono Lucrezio, Quintiliano, Catullo, molto Cicerone, Tito Livio. Il Rinascimento possiamo proprio vederlo come una grande biblioteca. Non è tuttavia passatismo. Anzi, la riscoperta del passato è davvero dialogo con gli antichi. Nella visione classicistica rinascimentale, è molto forte la dimensione imitativa. In realtà, però, il Rinascimento è stato anche un’epoca di grandi sperimentazioni, perché il contatto con l’antichità è un fertilizzante straordinario.
Quali sono stati alcuni grandi autori rinascimentali?
Un grande rinascimentale è stato Niccolò Machiavelli. Lui è un perfetto esempio di questo bi-frontismo. Machiavelli è un acuto lettore di Tito Livio. Scrive I Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Nel fare questa operazione, Machiavelli è dunque uno che guarda indietro, ma è anche uno che, guardando indietro, crea una teoria politica. Cerca di spiegare perché gli Imperi durano, qual è il segreto di una buona politica, qual è il rapporto tra Stato e religione. Machiavelli, l’ho scritto nei miei libri, è un grande progettista del futuro. La sua teoria politica non è determinata solo dalla volontà di capire perché l’Impero Romano è stato così forte, ma anche dal desiderio di capire come gli stati moderni possono essere forti.
Un altro esempio è Ludovico Ariosto che, nell’Orlando Furioso, imita Ovidio, Virgilio, oltre che, certo, i poemi di tipo cavalleresco del Medioevo. Ariosto è un grande classicista, comincia come poeta in latino; però, è anche uno degli autori che ha inventato le basi del romanzo moderno, scrivendo ancora in versi. Pensiamo che Cervantes, il grande padre del romanzo europeo, nelle prime pagine del Don Chisciotte, fa un tributo all’Orlando Furioso di Ariosto.
Il Rinascimento è anche il momento di un’importante riflessione sulla lingua scritta. Domanda complessa: quando si forma la lingua italiana?
Il dibattito, in effetti, è secolare. Comincia con il De Vulgari Eloquentia di Dante, una mappatura dei vari volgari, inedita fino al Cinquecento. La questione della lingua rimane per secoli una questione letteraria, cioè in che lingua devo scrivere. È nell’Ottocento che si pone il quesito del divario tra lingua scritta e lingua parlata. Gli italiani hanno a quel punto una lingua unica per la letteratura, ma che lingua devono parlare? L’Italia ha questo di bello: è un paese plurilinguista, dove l’italiano come norma, come codice unico si è fatto strada molto lentamente, molto faticosamente, tra esperimenti continui. Fino alla radio e alla televisione non si può parlare praticamente di un italiano condiviso. Questo, secondo me, fa anche un po’ parte della grande ironia italiana, del sapere che c’è sempre un’altra lingua. Per secoli gli italiani sono stati tutti più o meno bilingui. Io, per esempio, che sono di nascita molisana, cresciuto a Milano, da padre mantovano, ho respirato due dialetti. Ho poi imparato l’italiano; la scuola mi ha quindi messo di fronte ad un paio di lingue straniere. Come se niente fosse, sono diventato poliglotta.
Lei è nel comitato di direzione della rivista “Poesia”, fondata nel 1988 dal grecista Nicola Crocetti. Ha voglia di farci una panoramica della poesia italiana oggi?
La verità è che oggi ci sono moltissimi poeti. Alcuni sono noti. Un’infinità è ignota. C’è un’editoria più o meno nascosta, più o meno invisibile che però non va ignorata. Oggi ci sono moltissime poetesse che hanno ormai raggiunto stature anche molto rispettabili. Penso ad Antonella Anedda, molto amata, a Vivian Lamarque che è conosciuta già da molti anni. Si tratta di due voci davvero importanti. Ci sono poi grandi poeti scomparsi di recente che hanno segnato davvero la storia della poesia italiana nel secondo Novecento. All’inizio di ottobre ricorreva il decennale della morte di Andrea Zanzotto, un classico con il quale doversi incontrare. Sono anche dieci anni dalla morte di Giovanni Giudici, altro grande maestro del secondo Novecento. Infine, Mario Luzi.
La poesia italiana sta quindi bene. Il problema è che gli editori, quelli che commercialmente contano, non la promuovono abbastanza. La poesia è una necessità sociale. Nessuna lingua ne è davvero priva, perché tutte le lingue hanno il sogno che poi è il sogno delle lingue classiche di dire di più di quello che le parole esprimono. La poesia è un sovrappiù di senso che noi speriamo di fare saltare fuori dalle parole di tutti i giorni.
Lei ha scritto Viva il Latino: Storie e bellezza di una lingua inutile. Su questo libro Eva Cantarella ha commentato «La lingua che non parliamo più, ma che ancora ci parla. Un libro da leggere per capire chi siamo». La domanda che le faccio suonerà come una provocazione: a cosa serve il latino?
Su questo argomento ho scritto moltissimo. Viva il latino è uscito anche in inglese, in America e in Inghilterra, con il titolo Long Live Latin. La verità è che noi siamo ancora dentro la crescita del latino. Il latino non è finito nei libri scolastici. È dentro di noi. È intorno a noi e sta ancora dando frutti, foglie, gemme perché quello che fa una lingua è più o meno perenne. Va avanti nei secoli. A cosa serve il latino è in realtà una domanda mal posta, perché impone una excusatio che non ci può essere. Quando noi siamo davanti alle grandi espressioni della cultura umana non dobbiamo giustificare niente. Sono reperti, realtà che abbiamo avuto la fortuna di ricevere dallo scempio dei tempi e dobbiamo farci i conti. Andiamo a cercare i marziani, aspettiamo la visita degli extraterrestri. Quanto siamo fessi! Abbiamo continuamente visitatori dal passato che hanno fatto di tutto per entrare in contatto con noi. Perché questi scrittori hanno veramente scritto per resistere. Non omnis moriar, dice Orazio. Non tutto morirò, qualcosa di me resterà. Non sono sogni di gloria. Non sono demenziali esibizioni egoiche o narcisistiche. Sono davvero prese di posizione. Io sono la storia. Non passerò. Bisogna togliere al passato questa idea che sia trascorso. Il passato dura e dura con quello che ci ha lasciato e con quello che noi capiamo del passato. La negazione, l’omissione, la soppressione, la voluta negligenza avrebbero conseguenze tremende su tutta la nostra vita, perché continueremmo ad agire senza capire perché alcune cose ci accadono.
Nicola Gardini spiega sempre compassato, mai scomposto. Durante l’intervista, rilasciata nella calma della sua casa, è solo l’enfasi del lessico a lasciar trasparire, a tratti, non si sa se lo sdegno dell’intellettuale o la delusione dell’artista. Evoca Shakespeare quando dice che «la nostra vera dimensione è il sogno, dove tutto sta simultaneamente, dove chi eravamo e chi siamo continuano a discorrere, a influenzarsi, a trasformarsi vicendevolmente.
L’altro giorno sono andato dal mio pasticciere e mi ha chiesto cosa facessi nella vita. Io finalmente gli ho raccontato il mio mestiere e lui mi ha detto: “Sei un anacronismo vivente”. Non è vero! Perché esistono istituzioni come la scuola e l’università che invece in queste cose credono ancora. La letteratura antica, ma anche le epigrafi, il Corpus iuris civilis sono tutti pezzi di realtà. Quando noi studiamo queste cose stiamo studiando la struttura del mondo in alte forme linguistiche. Perché tutto questo latino e questo greco sono formalizzazioni di straordinaria raffinatezza e che hanno fatto di tutto per durare.
Cerco sempre di spiegarlo ai miei studenti ad Oxford. Anche se ogni tanto mi viene il dubbio che serva a qualcosa».
To know more:
Nicola Gardini: official website
Italy in their own words: Rinascimento (LISTEN TO THE AUDIO)