di Ilaria Verunelli

He is considered one of the most significant Italian composers of our time. His award-winning music has been performed by world-class orchestras. In 2016 he was named Chevalier des Arts et des Lettres by the French Ministry of Culture.

Here you find my interview.

February 28 2021 

Reading time: 10 min

If you want to read the English version of the interview to the Italian opera composer Francesco Filidei you can find it here.

Parlare con Francesco Filidei è come arrampicarsi su un sentiero tortuoso di montagna che si apre a scorci improvvisi di cielo terso e ossigeno puro. La complessità del suo ragionamento si scioglie d’un tratto in un’immagine a partire dalla quale tutto sembra chiaro. Francesco fa con le parole quello che ricerca con la sua musica: l’ascolto nasce dall’attesa, l’interesse si radica nei silenzi con i quali intermezza le sue risposte. Tempo e corpo ritornano spesso nelle sue parole e si allacciano nella sua musica, perché «il brano musicale è come una vita in miniatura: nasce, vive e muore nel tempo». Il problema in fondo è quello, spiega Filidei: «Che cosa ci facciamo qui? La musica è il mio strumento di indagine. Cosa sono io, cos’è la musica, cos’è un pezzo di musica? Dove nasce, dove nasco io? Dove muore, dove morirò io? Ci sono molti modi di indagare. Lo fanno i fisici, i matematici, i filosofi, ma la musica ha questo: scorre nel tempo e te lo fa vivere, percepire fisicamente e non solo razionalmente. Entra nel tuo corpo, con le sue vibrazioni. Non è solo un’esperienza astratta o mentale».

Francesco Filidei è considerato uno dei compositori italiani più significativi del nostro tempo. Nato a Pisa nel 1973, si è diplomato al Conservatorio di Firenze e al Conservatorio Nazionale Superiore di Parigi, città in cui vive. Pluripremiato, eseguito dalle più importanti orchestre in tutto il mondo, nel 2016 è stato nominato Chevalier des Arts et des Lettres dal Ministero della Cultura francese.

Come sei diventato musicista?

Mi capitava di ascoltare certa musica e l’emozione era talmente forte che poi ho cercato tutta la vita di capire come facesse a provocarmi certe sensazioni. Da lì sono diventato musicista e compositore. La mia prima maestra di pianoforte, che al tempo dipingevo come cattivissima, insegnava a tutti i cugini. Il pianoforte parte da lì. Poi sai come funziona in Toscana, da una parte hai il padre comunista e dall’altra la madre che invece va in chiesa e allora unisci le due cose e ti ritrovi ad accompagnare il coro della messa e a suonare l’organo quando ci sono le comunioni, le messe, i funerali.

Da sbarcare il lunario a suon di messe e funerali, come hai costruito una carriera internazionale?

Ricordo il primo incontro con Salvatore Sciarrino. Lo vidi passare e mi domandai: “È lui o non è lui?”. Assomigliava alla copertina del disco che avevo comprato. Il battito cardiaco accelerò all’inverosimile; era insieme ad altri professori del conservatorio di Firenze. Quando lo chiamarono capii che era effettivamente lui. Una sera, ai tempi del conservatorio, mi arrivò poi una busta anonima di un ammiratore segreto: dentro c’erano 4 milioni di lire, una bella cifra. Quei soldi mi sono serviti per il primo anno alla Cité des Arts, perché io, di miei, ne avevo ben pochi.

Hai mai scoperto chi era?

Sì, era un Professore Ordinario di Architettura e di Restauro a Firenze. Abitava dove hanno girato il secondo episodio del Silenzio degli Innocenti. Anthony Hopkins bussa alla sua porta quando si trova a Firenze. Era un uomo di altri tempi, aveva fatto il partigiano. La sera, anziché stare davanti alla televisione, andava a vedere spettacoli e concerti, tra cui i miei.

Salvatore Sciarrino, del quale sei stato allievo, ha definito il tuo percorso come un “cercare di immaginare una musica privata dell’elemento sonoro, facendone rimanere solo lo scheletro”. 

Salvatore Sciarrino ha detto questa cosa nel momento in cui io facevo musica solo strusciando gli strumenti. Per me il tentativo era quello di escludere totalmente la razionalità. Volevo avvicinarmi allo strumento in un modo fisico: strusciando le mie mani sul legno ho scoperto che questo generava dei suoni, con il pedale di risonanza questo strumento parlava. Da lì è nato un primo periodo di ricerca che cercava di vedere lo scheletro dietro la carne del suono e che mi ha portato anche a pensare l’architettura della musica in modo più forte. Prendi lo stilista Yohji Yamamoto: lavora spesso solo con vestiti neri e questo permette alla forma di essere esaltata. Allo stesso modo, se tu togli l’armonia e lasci lo scheletro, il ritmo se vuoi, hai modo di vedere meglio il tempo che passa, evidenziare di più questo scorrere.

Da lì ti sei evoluto. Come definiresti questa successiva evoluzione?

L’evoluzione successiva è stata di aggiungere quella carne che mancava, anche per una questione di età. In quel primo periodo avevo più forza, forse, e il fatto di negarmi la carne del suono mi permetteva di continuare a desiderarla. Per me era una specie di quaresima. Grazie a quell’esperienza fatta, controllo meglio un qualcosa che altrimenti non sarei riuscito realmente a tenere sottomano.

L’opera è un genere musicale che dell’Italia si conosce molto anche all’estero. Come ti sei approcciato a questo genere?

Se l’opera richiama la nostra tradizione, è allora una questione di radici. Torniamo al punto di cercare di capire chi siamo. La musica evidenzia subito le tue origini; si sente, per esempio, che io sono un compositore italiano trapiantato in Francia. L’opera è nata in Italia e ci contraddistingue in modo chiaro. La musica non è solo suono. La musica è il colore del tempo e il tempo lo puoi colorare anche con gesti, con odori. La musica è l’organizzazione di questi odori, di questi gesti, del sentire il tempo che scorre. Puoi utilizzare dei gesti senza corrispettivo sonoro e costruirli come fosse una musica e percepire la musica.

La tua prima opera è intitolata a Giordano Bruno e parla di eresia e inquisizione. Perché hai deciso di raccontare questa storia?

È un soggetto che mi hanno proposto contemporaneamente Nanni Balestrini e Stefano Busellato. Allora mi sono detto: devo scriverla. L’opera è composta da dodici scene, sei per il processo e sei per la filosofia. Nanni Balestrini, che ho conosciuto a Parigi, aveva scritto il collage di partenza delle scene filosofiche per Hans Werner Henze. Sono partito da lì.

La tua opera L’inondation ha richiesto 3 anni di preparazione, 17 settimane di lavoro comune e 6 settimane di prove. Come nasce?

È nata dal fatto che Joël Pommerat, il librettista, si era messo d’accordo con l’Opéra Comique per fare un’opera. Gli hanno proposto diversi compositori, però non gli andava bene nessuno; il direttore gli ha fatto ascoltare la registrazione del Giordano Bruno. Pommerat aveva fatto, in forma teatrale, Ça ira (1) Fin de Louis, sulla Rivoluzione Francese. Finisce poco prima dei tagli di testa. Non riusciva ad immaginare il momento del terrore in forma teatrale e si è detto, anche ascoltando il Giordano Bruno, che la musica poteva aiutarlo a costruire la situazione che andava cercando. Però abbiamo poi scelto un altro soggetto. L’Inondation è tratta da un racconto di Evgenij Zamjatin.

Tu sei stato eseguito anche alla Walt Disney Concert Hall di Los Angeles. L’organo in foto sembra veramente maestoso.

Sì, è uno dei più belli. Ho provato per tre notti consecutive in quella sala. Quando ho iniziato il pezzo, non mi muovevo, pigiavo appena il piede sulla nota più grave e tutta la sala rimbombava, vibrava. Degli infrasuoni spaventosi.

Il tuo pezzo Sull’Essere Angeli, con l’esecuzione di Mario Caroli, è ispirato al lavoro della fotografa statunitense Francesca Woodman. Come ti ha colpito?

Nelle sue fotografie c’è una forza, una capacità individuare subito l’immagine, ma anche la fragilità. Questa fragilità fa parte del mio pezzo. Ho pensato ad un flauto che fa una sorta di melodia, una specie di linea che non sa dove andare. Nuda, ogni tanto incontra dei vestiti diversi dell’orchestra che la coprono in modo sempre rinnovato. Ma resta ancor più scoperta e fragile alla fine.